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Chiesa della Beata Vergine Addolorata in Morsenchio
L’attuale chiesa parrocchiale Beata Vergine Addolorata di Viale Ungheria, 32 a Milano eredita dunque il nome da una chiesuola ricostruita a metà del ’700 in una piazzetta non lontana dall’aeroporto Forlanini. Le ultime notizie su questo luogo di culto risalgono al 1750, si sa però che vent’anni dopo, poco distante dalla Cascina Morsenchio, sorse una nuova chiesa. Era una costruzione modesta, nella realizzazione e nelle dimensioni (lunga 14,50 metri e larga 6,50), con un’unica navata coperta da volta a botte, mentre l’altare e la balaustra erano in marmo.
Sulle pareti spiccavano diversi quadri a olio che ritraevano i 12 apostoli, mentre dietro l’altare c’era una grande pala della Madonna Addolorata raffigurata con il cuore trafitto da sette spade.
Purtroppo anche questa costruzione e la cascina poco distante furono distrutte nel 1960, quando al loro posto sorsero i nuovi capannoni della Montedison, una storica ditta milanese resistita per decenni. A nulla valse la protesta della popolazione e l’opposizione del parroco don Ferdinando Frattino a salvare le sorti della piccola chiesa, tanto cara agli abitanti della zona.
Fu appunto nel dopoguerra, quando nella periferia est di Milano iniziava a sorgere un nuovo quartiere popolare con numerose costruzioni di edilizia pubblica e la conseguente crescita della popolazione, che si rese necessario provvedere a un luogo di culto più grande. Così, nel 1955, fu costruito in Via Bonfadini un salone in muratura e ben arredato che doveva fungere da cappella provvisoria in attesa della nuova e definitiva chiesa, il cui progetto era stato affidato all’architetto monsignor Enrico Villa, responsabile dell’ufficio “Nuovi templi” della Curia.
Finalmente fu fissata la data per la posa della prima pietra: il 18 maggio 1958.
Il 20 novembre 1959, dopo le lungaggini burocratiche, misurazioni, permessi e preventivi, il parroco poté finalmente assistere all’inizio dei lavori. «Lo scavo per tutta l’area della chiesa», scriverà don Ferdinando, «diventa un’impresa non da poco per il metro e più d’acqua che vi si raccoglieva». A tre metri di profondità c’era uno strato di creta, impossibile quindi poggiarvi le fondamenta, occorreva scavare ancora. Per il campanile si è scavato fino a 5 metri di profondità, intanto gli operai aggiungevano gabbie di metallo e cemento perché dal terreno continuava a zampillare «freschissima acqua».
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